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KPI, EBITDA, ROI: sappiamo benissimo cosa vogliono dire questi acronimi. E non facciamo nessuna fatica a usarli tutti i giorni, anche più volte al giorno. E poi ce ne sono altri, che invece usiamo a fatica. O che usiamo per sentito dire, senza sapere bene cosa vogliano dire.

LGBT+ è uno di questi.

Eppure, li usiamo tutti, per parlare delle stesse cose: delle persone. Dietro a obiettivi, progetti e investimenti, ci sono le persone della nostra azienda. Dietro alla sigla LGBT+, anche. Ci sono alcune delle persone che ci lavorano e altre che, forse, vorranno lavorarci. Persone per cui questa sigla non è una parola incomprensibile o un insieme confuso di etichette: è la loro identità.

Come ha scritto Alice Orrù, esperta di linguaggio inclusivo e content designer multilingue, in questo articolo: “nominiamo per rendere qualcosa reale, concreto, parte della nostra vita quotidiana. Una persona/sentimento/relazione senza nome può esistere, certo, ma è molto più probabile che soffra dietro il tremore dell’incertezza, dietro la paura di scomparire o di diventare un tabù. E questo è particolarmente vero quando si parla di identità: essere nominati, far parte del discorso, e quindi delle politiche pubbliche, della vita civile, è fondamentale per il nostro riconoscimento e ruolo attivo nella società”.

Al contrario: ciò che non ha un nome, non esiste.

E come professionisti e professioniste delle risorse umane, come possiamo accettare che alcune persone – le nostre persone – semplicemente non esistano per quello che sono?

Le parole hanno un peso: è nostra responsabilità, in quanto funzione HR, usarle con rispetto. E insegnare ad altre persone a farlo.

Scritto da Alessandro Rimassa

Sono un imprenditore con grande esperienza su Future of Work e Digital Transformation. Ho fondato Talent Garden Innovation School, supporto diverse aziende e startup nel mondo education e digital. Ho scritto 8 libri, da Generazione Mille Euro a Company Culture.