KPI, EBITDA, ROI: sappiamo benissimo cosa vogliono dire questi acronimi. E non facciamo nessuna fatica a usarli tutti i giorni, anche più volte al giorno. E poi ce ne sono altri, che invece usiamo a fatica. O che usiamo per sentito dire, senza sapere bene cosa vogliano dire.
LGBT+ è uno di questi.
Eppure, li usiamo tutti, per parlare delle stesse cose: delle persone. Dietro a obiettivi, progetti e investimenti, ci sono le persone della nostra azienda. Dietro alla sigla LGBT+, anche. Ci sono alcune delle persone che ci lavorano e altre che, forse, vorranno lavorarci. Persone per cui questa sigla non è una parola incomprensibile o un insieme confuso di etichette: è la loro identità.
Come ha scritto Alice Orrù, esperta di linguaggio inclusivo e content designer multilingue, in questo articolo: “nominiamo per rendere qualcosa reale, concreto, parte della nostra vita quotidiana. Una persona/sentimento/relazione senza nome può esistere, certo, ma è molto più probabile che soffra dietro il tremore dell’incertezza, dietro la paura di scomparire o di diventare un tabù. E questo è particolarmente vero quando si parla di identità: essere nominati, far parte del discorso, e quindi delle politiche pubbliche, della vita civile, è fondamentale per il nostro riconoscimento e ruolo attivo nella società”.
Al contrario: ciò che non ha un nome, non esiste.
E come professionisti e professioniste delle risorse umane, come possiamo accettare che alcune persone – le nostre persone – semplicemente non esistano per quello che sono?