Dare la colpa alla leadership è semplice. E lo facciamo spesso, a torto o a ragione.
Lo facciamo per il loro stile, le loro scelte.
Ma lo facciamo anche in base ai nostri pregiudizi.
Tutte e tutti noi abbiamo un’idea in testa del nostro o della nostra manager ideale.
Ma cosa succede quando la persona che, tutti i giorni, al lavoro, ci aiuta a raggiungere i nostri obiettivi, è una persona diversa da quella che ci aspettavamo?
Una manager donna, ad esempio.
Un manager giovane.
Una leader omosessuale o transessuale.
Uno che ha una fede diversa dalla nostra.
Una persona disabile.
Non succede spesso: quelle che la maggioranza considera “minoranze” (incluse le donne, che pure sono metà della popolazione mondiale), ancora difficilmente raggiungono ruoli apicali in azienda.
Ma quando succede, la realtà ci obbliga a superare i nostri ideali. E, alle volte, i nostri pregiudizi.
Ad andare oltre il film in bianco e nero che avevamo in testa per accogliere una leadership diversa, variegata: a colori.
Perché, in fondo, pensare alla DE&I come uno sforzo top-down è limitante: l’inclusione non ha una direzione definita.
Anzi: è un cerchio che abbraccia tutta la popolazione aziendale.
Come ha detto Michele Buscio, attivista per i diritti delle persone disabili: “La diversità non è un mondo a parte, ma parte del mondo”.
Il mondo del lavoro non può fare eccezione. La leadership, neanche.
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