Secondo l’Organizzazione Mondiale per il Lavoro, ogni giorno vengono dedicate 16,4 miliardi di ore al lavoro non retribuito per la cura e l’assistenza alla persona. Di queste, il 76,2% è svolto da donne.
In Italia, secondo un’indagine svolta da Ipsos e WeWorld, il 60% delle donne si occupa da sola della cura di figli, figlie, persone anziane e disabili, contro il 21% degli uomini.
L’impatto del “doppio turno” sulle e sui caregiver è enorme, a livello sia fisico che mentale. Così come la mancanza di tutele.
Per questo, da ottobre scorso il Ministero per la Disabilità e quello per il Lavoro e delle Politiche sociali sono al lavoro per definire una legge statale sui caregiver familiari.
Anche le aziende, però, devono fare la loro parte.
Per farla, noi HR siamo i primi e le prime a dover riconoscere l’importanza del lavoro di cura, per le persone e per la società.
Ricordiamocelo ogni volta che i momenti di comunità in azienda non sono poi così tanto inclusivi: ci si preoccupa sempre il giusto dei genitori, perché “poverino/a, sicuramente non parteciperà perché dovrà tornare a casa presto”.
Ogni volta che le policy smart working 2+3, 3+2 etc. sembrano anacronistiche e fanno sembrare inopportune le richieste di alcune persone, solo perché probabilmente non conosciamo le loro storie.
Ogni volta che ci siamo dimenticate e dimenticati delle nostre persone caregiver subito dopo l’ultimo foglio presenze particolarmente leggero, perché in fondo al lavoro sembrano produttive e allegre e non ci sarà nulla di cui preoccuparsi.
Qualcuno ha detto che non bisogna mai smettere di fare domande.
Chi si occupa di persone non può prescindere da questo.
Perché senza il lavoro di cura di poche persone, il mondo del lavoro per come lo conosciamo semplicemente si fermerebbe.